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Musica Italiana, Lucio Battisti: cinque ragioni per non smettere di ascoltarlo, mai

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Lucio Battisti è stato tutto. Nazional popolare, rock, pop, dolce, melodico, beffardo, sincero, saccente, smielato. È un termine di paragone, una virtù, un ossimoro di voce sussurrata e chitarra dissonante, un’anima dai mille caleidoscopi.

Che piaccia o no – de gustibus non disputandum est sopra ogni cosa – non si può non prescindere dal nostro di Poggio Bustone, che, indubbiamente, in barba alla celebre ritrosia peculiare soprattutto del suo ultimo periodo di attività, avrebbe apprezzato non poco il recentissimo sbarco sulla piattaforma digitale più amata del momento, Spotify, ormai il nostro più fedele juke box.

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Di seguito, fra le mille e più, le cinque ragioni per cui chi scrive, suona, ascolta o semplicemente vive lasciando che la musica attraversi pensieri e sensazioni, non può per nessun motivo sottrarsi all’ascolto dell’opera battistiana, una qualsiasi.

  1. Per la struggente poesia: esiste un brano più dolcemente bruciante di “Anna”, più malinconico e potente di “E penso a te”?

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  1. Per la divorante malinconia raccontata con semplicità, disarmante linearità e limpidezza. Se i testi che canta Battisti fossero il soggetto di una fotografia, questo sarebbe il grandangolo di uno stagno cristallino ricolmo di sinuose ninfee: la superficie liscia e candida della voce di Battisti rifugge con naturalezza la discrepanza nei confronti dell’asprezza delle parole e del suono, ora cupo, ora raggiante (“Un’avventura”, “Pensieri e parole”, “Il veliero”, “I ritorni”, “Non sei più solo”).

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  1. Per la continua ricerca, testuale e sonora. Dal folk inglese all’elettronica, dalle fusioni di pop e r’n’b al beat, le molteplici personalità artistiche di Battisti si sono nutrite progressivamente negli anni lungo una scia precisa, di coerenza e lungimiranza (“Don Giovanni”, Numero Uno, 1986, e “La sposa occidentale”, CBS, 1990).

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  1. Per le parole di Mogol, ardenti, vivissime, ricolme di emozione e disperazione, (“Il mio canto libero”, Numero Uno, 1972) e per quelle di Panella, ostiche, moderne, sognanti (“L’apparenza”, Numero Uno, 1988).

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  1. Per la visionarietà, l’onirismo, il racconto dell’amore e della vita in “Anima Latina” (Numero Uno, 1974), “un’operazione culturale, un esperimento”, diceva Lucio, un imprescindibile capolavoro della discografia italiana degli anni settanta, molto più semplicemente diremmo noi.

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