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Psicologia

SPAZIO MENTE. La sindrome di Stoccolma

Quando tra vittima e carnefice si instaura una dipendenza psicologica o affettiva si parla di sindrome di Stoccolma

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Crediti Foto: ShutterStock

L’espressione “sindrome di Stoccolma” risale all’episodio di una rapina presso la Sverigas Kreditbanken di Stoccolma, avvenuta nel 1973 in cui due evasi si barricarono all’interno di una banca con degli ostaggi. Al contrario di quanto  ci si attende in questi episodi, in quell’occasione le vittime sperimentavano sentimenti di timore  più per i poliziotti che per i sequestratori.

Addirittura,  dopo il rilascio, gli ostaggi si erano così affezionati a loro tanto da difenderli anche a seguire, durante il processo. Il termine “sindrome di Stoccolma”  fu coniato, appunto, a seguito di quell’occasione dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, che aiutò la polizia con la negoziazione durante la rapina, e dall’agente FBI Conrad Hassel.

L’espressione fa riferimento ad uno stato particolare di dipendenza psicologica o addirittura affettiva che si instaura tra vittima e carnefice. Il legame creatosi tra maltrattato e maltrattante si manifesta come una predisposizione affettiva positiva nei confronti dell’aggressore che, in casi estremi, si traduce in un patto di lealtà tra vittima e carnefice. La sindrome, solitamente, insorge in soggetti che presentano una personalità non ben strutturata o solida che andrebbero incontro a depersonalizzazione messa in atto in modo intenzionale dal carnefice per assoggettare e legare a sé la vittima prescelta.

La sindrome è una condizione psicopatologica possibile anche se piuttosto rara. Difatti, non esiste un piano terapeutico specifico per chi ne soffre ma  è il tempo, solitamente,  a ristabilire la normalità psichica della vittima.

Dott.ssa Alessandra Bisanti, Psicologa, Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale

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Crediti Foto: SHUTTERSTOCK

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