Seguici su

Attualità

Fallisce anche il femminismo da social?

Fallisce anche il femminismo da social? Freeda in liquidazione, Chiara Ferragni che arranca sono il sintomo che un mondo è tramontato. Un mondo fatto di attivismo su misura delle multinazionali interessate a pink e rainbow washing, in cui si cercava di coniugare diritti di donne e minoranze con i dividendi aziendali. Ora che quel mondo è tramontato, all’orizzonte non sembra sorgerne un altro.

Pubblicato

il

Fallisce anche il femminismo da social? Freeda in liquidazione, Chiara Ferragni che arranca sono il sintomo che un mondo è tramontato. Un mondo fatto di attivismo su misura delle multinazionali interessate a pink e rainbow washing, in cui si cercava di coniugare diritti di donne e minoranze con i dividendi aziendali. Ora che quel mondo è tramontato, all'orizzonte non sembra sorgerne un altro.
Crediti foto chiaraferragni Instagram

Era il lontano 2017 quando in Italia apre il progetto Freeda. L’idea era di creare una piattaforma su instagram che trattasse diritti LGBTQI+, empowerment femminile, attivismo e vendita di prodotti a tema. Oggi la piattaforma è andata in liquidazione per debiti, e non è un caso isolato. A passarsela male sono molti profili di influencer e piattaforme simili nate nello stesso periodo, fra cui quello dell’ex regina dell’attivismo pop Chiara Ferragni. Vediamo il perché.

L’epoca d’oro del progresso

Per il modo di percepire il tempo che abbiamo oggi, 8 anni corrispondono ad un’era geologica. In un certo senso è così. 8 anni fa sembrava infatti a chi si occupava di marketing e comunicazione che l’avanzamento dei diritti di donne, persone LGTQI+ e minoranze etniche fosse inarrestabile. Le aziende facevano a gara per aderire a programmi di inclusione e celebrazione della diversità, il cinema si riempiva di film scritti su misura per ogni tipo di minoranza, sorgevano come funghi brand di moda specializzati nei bisogni di questa o quella nicchia di mercato storicamente snobbata. Tutto sembrava indicare che il treno del progresso corresse a tutta velocità verso un futuro radioso.

I diritti fanno fatturare

In questo contesto l’idea di Freeda, così come di molti altri influencer che ne hanno seguito la scia (Giorgia Soleri e Chiara Ferragni per fare nomi noti), era semplice: facciamo fatturare questo interesse per i diritti di donne e minoranze. In fondo non è difficile: basta aprire un profilo o rebrandizzare parzialmente un profilo (come ha fatto la Ferragni) parlando di empowerment femminile e diritti delle minoranze, e una volta radunata una community interessata a questi temi, sganciare sponsorizzate a raffica per i grossi brand interessati a dare un tocco di pink e arcobaleno alla loro immagine. Un’idea geniale, visto l’interesse verso questi temi.

Il difficile equilibrio fra richieste divisive e dividendi aziendali

Il problema della credibilità di chi si cimentava in questo genere di operazioni è sempre stata oggetto di dibattito. La questione non era semplice: l’attivismo sociale è una fede che mobilita l’individuo a compiere gesti di rottura per “far progredire il mondo”, mentre il marketing si occupa di intercettare i vari target per vendere prodotti e aumentare i dividendi delle aziende. Due obbiettivi egualmente legittimi, ma che è difficile fondere insieme. Cosa succede infatti se le richieste di una minoranza vengono percepite come troppo divisive e quindi creano sentimenti negativi nella maggioranza degli acquirenti? L’azienda si schiera dalla parte dell’attivista con cui ha un contratto di sponsorizzate o con il pubblico? E che succede se l’azienda obbliga (minacciando la rescissione del contratto) l’attivista a fare marcia indietro su determinate posizioni troppo divisive? All’epoca questi problemi esistevano, ma si pensava fossero semplici incidenti di percorso verso l’armonia perfetta fra marketing e attivismo social.

L’attivismo pop

Per risolvere il problema all’origine nasce la pratica dell’“attivismo pop”, ossia un genere di attivismo pensato appositamente per le aziende. Iperprofessionale nella forma, sempre ben educato nei contenuti, l’attivismo pop coniuga la richiesta di diritti per donne e minoranze con il piglio professionale nella comunicazione, e una scelta dei target da colpire (gay e lesbiche, afroamericani e latinos, donne curvy) che hanno il pregio di essere non solo minoranze, ma soprattutto minoranze numericamente ben nutrite e con soldi da spendere per prodotti pensati (o riadattati) per loro. Freeda e la Ferragni in questo contesto erano gli esempi perfetti: univano glamour e richieste sociali che non infastidivano quasi nessuno.

L’omologazione della diversità e il problema della credibilità

Il risultato dell’attivismo pop lo conosciamo tutti. All’improvviso i nostri social sono invasi da omosessuali palestrati perfettamente vestiti e istruiti che ci vendono viaggi gay friendly e serate a tema nelle discoteche più esclusive, femministe in carriera capaci di rompere soffitti di cristallo senza un filo di burnout mentre ci rifilano trucchi e vestiti, modelle curvy che lamentano indicibili discriminazioni mentre vengono contese dai brand di moda perché sono bellezze mozzafiato. Che credibilità hanno le loro richieste di nuovi diritti mentre sono perfettamente inseriti nel sistema? Che senso ha lamentare indicibili discriminazioni lavorative mentre sei sponsorizzato da multinazionali come Dior o Meta? Si pone quindi un nuovo problema: si può essere credibili come vittime del sistema mentre lo stesso sistema di cui sei vittima ti riempie di soldi e visibilità?

La crisi

E’ la pandemia a segnare il punto di svolta. Dopo due anni di chiusure, crisi economica e difficoltà a mantenere la salute mentale a livelli accettabili, il mondo riparte, ma non è lo stesso di prima. La rabbia sociale inespressa durante la pandemia si manifesta sempre più capillarmente sui social, la crisi occupazionale che ha falciato donne e minoranze sessuali/etniche crea una sfiducia generalizzata nell’idea pre-pandemica di un futuro roseo per tutti. Ecco quindi che il modello dell’attivista pop viene sempre più percepito come un’ipocrisia fuori tempo massimo: il mondo non è diventato un posto migliore per donne e minoranze, è diventato un posto migliore per alcune donne e alcuni membri di determinate minoranze che hanno sfondato sui social e nei media, volti utili per raggiungere la quota diversità necessaria a vendere prodotti a tutti.

Protesta e rifiuto

Dopo la pandemia sorge un fenomeno inaspettato: la critica di massa a quegli attivisti pop che si erano “venduti” alle aziende. Il caso più eclatante in Italia è quello di Chiara Ferragni: l’affaire Balocco dà la possibilità di riversare su di lei l’odio per l’attivismo femminista glamour. Alla Ferragni si contestano le letterine d’empowerment femminile sul palco di Sanremo mentre di nascosto froda nella beneficienza, la si ridicolizza nel suo proporsi come donna vittima del patriarcato mentre con la sua azienda utilizza gli sgravi fiscali alle attività filantropiche per aumentare i dividendi per sé e i soci. Se la Ferragni è il parafulmine, anche gli altri attivisti glamour non se la passano meglio.

La fuga delle aziende e la crisi del modello

A segnare la crisi terminale del modello è il cambio di amministrazione statunitense ad inizio 2025. Le aziende prendono il cambio di presidente USA come il segnale per staccarsi da un modo di fare marketing e promuovere i prodotti ormai in crisi, e quindi riducono o smantellano i loro programmi di Diversity&Inclusion uno dopo l’altro. In questa generale potatura di rami improduttivi, ad essere tagliate per prime dalle voci dei bilanci aziendali sono le collaborazioni con gli attivisti pop. Scompaiono le modelle curvy dalle passerelle e dal libro paga dei brand del luxury, i cast delle megaproduzioni hollywoodiane includono meno minoranze etniche e sessuali, i profili delle donne in carriera con lavori top nelle multinazionali all’improvviso si trasformano in profili OnlyFans.

La fine di un mondo

Si può dire che la chiusura di Freeda segni la fine di un mondo. Un mondo fatto di profili che lottavano contro il patriarcato mentre vendevano smalti, di donne talmente forti da sopportare indicibili discriminazioni mentre percepivano assegni a 6 zeri da multinazionali USA. Un mondo insomma dove essere vittime poteva aprire le porte del successo. Un successo certo che baciava solo pochi eletti, quelli che sapevano recitare al meglio la figura della vittima ed erano disposti a parecchi compromessi fra la loro coscienza e il portafoglio. Bene, ora quel mondo è scomparso, e all’orizzonte non sembra apparirne un altro di migliore.

Clicca per commentare

Tu cosa ne pensi?

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *