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Uccise la moglie accoltellandola alla gola, assolto perchè “in preda ad un delirio di gelosia”

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Assolto perché incapace di intendere e volere a causa di “un delirio di gelosia”. Si è chiuso così il processo davanti alla Corte d’Assise di Brescia a carico di Antonio Gozzini, 70 anni, che un anno fa a Brescia uccise la moglie Cristina Maioli dopo averla tramortita nel sonno con un colpo di mattarello al capo e poi accoltellandola alla gola. 

La difesa dell’uomo, che non era presente in aula, aveva chiesto l’assoluzione ritenendolo incapace di intendere e volere al momento dell’omicidio, come riconosciuto dalla Corte, mentre il pm Claudia Passalacqua aveva chiesto l’ergastolo.

“Siamo soddisfatti perché la sentenza rispecchia quanto emerso nel dibattimento e cioè che il mio assistito non era capace di intendere e volere”, ha commentato l’avvocato Jacopo Barzellotti, legale di Gozzini. In fase processuale il consulente dell’accusa e quello della difesa sono stati d’accordo nel dire che l’uomo “era in preda ad un evidente delirio da gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida”.

Questa sentenza riporta alla mente quella della Corte d’assise d’appello di Bologna che nel 2019 ridusse da 30 a 16 anni la pena per Michele Castaldo, operaio che il 5 ottobre 2016 uccise a Riccione, strangolandola a mani nude, la fidanzata Olga Matei. La motivazione della sentenza sottolineava che l’imputato era in preda al momento dell’omicidio ad una “soverchiante tempesta emotiva e passionale” determinata dalla gelosia, e contribuì a mitigare la responsabilità di un femminicidio, concedendo a Castaldo le attenuanti generiche e una condanna quasi dimezzata. Il provvedimento, di cui si venne a conoscenza a ridosso dell’8 marzo, creò accese polemiche politiche, con presidi sotto il palazzo di giustizia da parte di associazioni in difesa delle donne. La Procura generale di Bologna fece ricorso in Cassazione sostenendo che Castaldo uccise la donna perché perse il controllo, in preda all’alcol e la Suprema Corte lo accolse, specificando che era necessario un nuovo processo di secondo grado sulla concessione delle attenuanti. L’appello bis si è recentemente concluso con la conferma della sentenza di primo grado, cioè 30 anni per Castaldo. Nella motivazione la Corte bolognese, in diversa composizione, ha messo in chiaro che si deve escludere che “il moto passionale che ha pervaso l’imputato al momento del fatto” possa aver inciso in modo “necessariamente significativo” nella consumazione del delitto.

 

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Crediti foto: LaPresse