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Musica

Bob Dylan con “Rough and Rowdy Ways” racconta la morte del ‘900

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Chissà cosa significa essere Bob Dylan. Svegliarsi ogni mattina con la coscienza di aver scritto alcune delle pagine più importanti della cultura occidentale dell’ultimo secolo, con il peso sulle spalle di un Oscar, un Pulitzer, un Nobel, e l’affanno di doversi – in teoria – sempre giustificare per questi tributi, dimostrare di essere sempre all’altezza.

Certo che a Dylan non è mai importato molto: non gli importava degli anni ‘60 di tutti gli hooligan del folk traditi dalla sua conversione “elettrica”, né di convertirsi ancora in un gentleman country o in un cristiano rinato. 

Come non gli è importato d’altronde abbandonare la scrittura di canzoni originali e di passare ben 8 anni a cantare gli standard e i traditional della golden age di Tin Pan Alley, quei brani forse oggi dimenticati e riportati in vita proprio da uno dei cantanti più discussi e criticati della Storia della popular music.

Insomma, Dylan è nato, morto e risorto talmente tante di quelle volte, che l’unica cosa che possiamo fare è di rimanere sorpresi, ancora e di nuovo. 

Così l’annuncio di “Rough and Rowdy Ways”, primo disco di inediti da “Tempest” del 2012, cade proprio in mezzo alla crisi legata al COVID-19, in un’America che riscopre la rabbia in seguito all’uccisione di George Floyd da parte della polizia statunitense.

Dylan torna e lo fa per tracciare una linea, superata la quale non ci si può più voltare indietro: il primo disco post Nobel è lo spazio lirico e musicale dove Dylan finalmente torna non solo a cantare le sue parole, ma a farci vedere quella linea sottile delle labbra, che non è né un sorriso né una smorfia di rimprovero.

“Rough and Rowdy Ways” è una collezione di fotografie, dove forse per la prima volta in assoluto vediamo Bob Dylan e non qualche strano e astruso personaggio. 

“I Contain Multitudes” è l’esplosione dell’Io lirico dylaniano, una rivendicazione (in forma poetica) delle anime tumultuose e conflittuali di una personalità indecifrabile, che può essere compresa solo se lasciata nella sua imperscrutabilità. Come dire: non provate a decifrarmi, perché neanche io so più dove sono. 

È lo strascinato e zoppicante incedere blues di “False Prophet” (in realtà rubato da Billy “The Kid” Emerson di “If lovin’ is believing”) a ricondurci nei volti in prima persona di Dylan, che sembra volerci dire di essere ancora presente, di essere il vincente (“I’m first among equals Second to none The last of the best You can bury the rest”).

Dylan non si discosta molto dal sound sinatriano degli ultimi anni: “My Own Version of You”, con la sua discesa di bassi, ha l’odore del tabacco fumato nei club underground di New York e lo straniante racconto della costruzione di un amore, sì, ma letterale, con Dylan novello dr. Frankenstein.

Arrivato alla veneranda età di 79 anni, con un passato degno di un’epopea letteraria eppure ancora in splendida forma – apparentemente – Dylan sa di avere più vita alle spalle che di fronte a sé. Per questo aleggia l’ombra lunga della Morte su tutti i brani, come una presenza certa, anche se mai vincente. i versi “Today, and tomorrow, and yesterday, too The flowers are dyin’ like all things do” aprono il disco, e la certezza della fine delle cose si trascina lungo tutte le tracce, di cui “Black rider” è forse la più didascalica, con Dylan che non rifiuta la presenza di questa oscura figura, che aspetta al valico pronto a scacciarla via.

È forse su “Mother of Muses” che la voce si fa più calda e intima, meno ironica e meno sfrontata. L’invocazione non alla Musa, ma alla madre di tutte le Muse è lo struggente appello della mente creativa che vuole ancora dire e ancora fare, che vuole Calliope – musa della poesia epica – come sposa e concubina, che prega per ricevere ancora l’illuminazione dell’intuizione, ancora adesso che il viaggio è verso casa, verso la fine.

È un Dylan in viaggio, che supera montagne, valli, fiumi e mari e spera di raggiungere “Key West”, ultima tappa di questo ideale percorso, terra agognata dove si può raggiungere l’immortalità e che seppure sembra il paradiso, sarebbe ingiusto chiamare così. 

Il primo disco si chiude così. Il secondo è interamente dedicato a “Murder Most Foul”, forse per non contaminare l’importanza della canzone, forse come omaggio a “Sad Eyed Lady of the Lowland”, prima canzone del pop a riempire una intera facciata di un album (nel lontano 1966 su “Blonde on blonde”). In ogni caso, con i suoi quasi 18 minuti di durata, “Murder Most Foul” non è solo il brano più lungo di Dylan, ma anche la summa massima della sua inventiva poetica. Nell’epico poema, Dylan prende spunto dall’omicidio del Presidente John Fitzgerald Kennedy, assassinato a Dallas nel 1963, per raccontare la decadenza del nostro mondo, della società americana, sospesa a metà tra la voglia di libertà e l’insopportabile violenza che la stringe. E dove emerge invece la potenza della musica, quella che dalla Tin Pan Alley di Sinatra, dai piccoli e fumosi club di blues e jazz di New York, ha spianato la strada per l’esplosione del rock and roll, fino all’arrivo dei Beatles in America e le illusioni degli anni ‘60 cristallizzate per sempre nel due eventi complementari di Amore (Woodstock) e Morte (Altamont) del 1969.

“Murder Most Foul” è anche un tributo all’essenzialità della musica, a chi c’era prima, durante e dopo Dylan, alle canzoni che hanno raccontato una generazione, la sua fine, il suo sorpasso e che oggi rischiano di essere dimenticate, sommerse dalla contemporaneità fatta di pensieri veloci e poca memoria.

Bob Dylan con “Rough and Rowdy Ways” traccia quella linea, inevitabile, tra un mondo che sta sparendo, quello del ‘900, e il Nuovo Mondo, depersonalizzato, anonimo, subliminalmente distopico e senza una direzione, perso come uno sconosciuto, lanciato come una pietra che rotola.

Se fosse davvero il suo ultimo contributo discografico, sarebbe il suggello a una carriera impensabile da ripetere, opera di uno dei grandi protagonisti della Cultura occidentale, per cui essere grati di averci fatto dono di un regalo da scartare e godere oggi, nel tempo presente, e non soltanto antica vestigia di un’epoca dorata, assassinata su una Cadillac e sepolta da 60 anni.

VOTO: 9/10

AGGETTIVO: STRUGGENTE

TRACKLIST:

  1. I Contain Multitudes
  2. False Prophet
  3. My Own Version of You
  4. I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You
  5. Black Rider
  6. Goodbye Jimmy Reed
  7. Mother of Muses
  8. Crossing the Rubicon
  9. Key West (Philosopher Pirate)
  10. Murder Most Foul

ALBUM: ROUGH AND ROWDY WAYS

ARTISTA: BOB DYLAN

ANNO: 2020

ETICHETTA: COLUMBIA

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