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IndieGesta Talks Jazz – Intervista a Piero Odorici (II parte)

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Proseguiamo con la seconda parte del nostro incontro col jazzista di fama internazionale Piero Odorici in occasione dell’appena concluso Umbria Jazz Weekend

SECONDA PARTE:

Sei diventato sempre più conosciuto per il tuo grande talento e per essere “il più americano” dei jazzisti italiani: hai collaborato coi nomi più importanti della scena jazz americana ed europea e molti li hai spesso “portati in Italia” a suonare con te. Se ricordare alcuni tra gli incontri che ti hanno cambiato la vita?

Gli incontri sono stati tanti ma così d’impatto ti direi, oltre che quello con Steve Grossman, senza dubbio quello con Cedar Walton (pianista jazz di fama mondiale, fin da giovanissimo ha suonato con Charlie Parker, Dizzy Gillespie e John Coltrane e poi con Sonny Rollins, Kenny Dorham. Nelle sessioni del 1 aprile del ’59 di “Giant Steps” di Coltrane c’è lui al pianoforte. Walton entra nel 1961 nei Jazz Messengers di Art Blakey e poi ha suonato con George Coleman, Clifford Jordan e molti altri, ndA). Pensa che da ragazzino suonavo sui suoi dischi e poi quando l’ho conosciuto e ho suonato con lui molte volte nei jazz club e festival internazionali, in Europa e negli States.

 

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[A riprova del forte sodalizio artistico e amicale di Odorici-Walton è da menzionare che Piero Odorici ha registrato a New York nell’autunno 2011, un album prodotto proprio da Cedar Walton dal titolo Cedar Walton presents “Piero Odorici with the Cedar Walton Trio” per l’etichetta discografica Savant e distribuito dalla WEA Warner’s in tutto il mondo. La formazione è con Walton al piano, David Williams al contrabbasso e Willie Jones III alla batteria, ndA]

Voglio però ricordare quando alla “Grande Parade du Jazz”, un importante festival di Nizza ho suonato nel 1988 mezz’ora prima di Miles Davis e poi sono sceso dal palco ad ascoltarlo. Ero incantato, in estasi ad un metro da lui. Se parliamo di personalità lui era il Maestro. Sprizzava personalità nonostante fosse di statura veramente ridotta. Era elegantissimo e un fascio di nervi. Ad un certo punto nella foga del momento, durante un solo gli vola via dalla tromba il coprimicrofono a clip che aveva attaccato. Ovviamente corro a prenderlo. Lui mi guarda fisso con quegli occhi di fuoco che aveva e continua imperterrito a suonare. Quel coprimicrofono di gommapiuma l’ho tenuto come un totem per trent’anni.

Com’è nato il tuo amore per il sax tenore? E che sax suoni?

La scelta di suonare il sax è avvenuta quando suonavo nella banda del mio paese di origine, Riola di Vergato. Pensa che il direttore d’orchestra era il nostro prete, che se ricordo bene aveva studiato direzione d’orchestra e quindi leggeva la musica ma per insegnare ad ognuno di noi uno strumento diverso prendeva i vari “metodi” e provava ad insegnarci leggendoli! Per un anno in realtà ho suonato la tromba come mio padre. A dieci anni ho fatto studi classici sia di sassofono che di clarinetto. Poi, a quindici anni ho comprato un disco di Dexter Gordon e Johnny Griffin, un concerto live, e posso dire che per la prima volta nella mia vita ho sentito “Il Jazz”. Amavo quel sound e capii subito che era quella la musica che volevo suonare e così ho iniziato, anche grazie a quegli incontri leggendari di cui ti ho parlato. Con quei giganti andavo anche a mangiare al ristorante e spesso parlavano di tutt’altro che la musica ma vicino a loro assorbivo uno spirito molto diverso dal nostro. Ora sto suonando un Selmer Mark VI del 1964.

[Il sax tenore Selmer Mark VI è da molti considerato il miglior sax tenore mai creato. Prodotto in Francia dal 1954 al 1981, per poi passare negli anni ’70 al modello VII. Il Selmer Mark VII è stato suonato anche da John Coltrane, Jimmy Heath, Sonny Rollins e David Sanborn, ndA]

Cosa intendi per “uno spirito diverso dal nostro”? Erano più “autentici” per te ?

Sì, erano molto più autentici, erano “il jazz”. Il jazz era “il loro”, è nato in America. Incontravi uno del Texas che aveva uno stile diverso da quello di New York, ognuno aveva uno stile unico. Oggi le scuole, le accademie, purtroppo tendono ad uniformare. Mentre in quegli incontri, come quello con Grossman, ho capito che ognuno deve ricercare un proprio stile e mantenere la propria personalità. Suono spesso in America. A New York si vedono ragazzi di 20/25 anni molto più maturi artisticamente di quello che siamo abituati a vedere, anche perché lì la musica è appunto business, c’è molta pressione, non solo tra le star ma diffusamente per chi intraprende quella carriera. E nonostante la maturità tecnica sento che le influenze sono sempre quelle, perché è come se i giganti non fossero stati superati. La nuova generazione è ancora molto legata “allo stile di…”, ai capiscuola del jazz.

Quali sono i dischi che non dovrebbero mai mancare nella discoteca di un musicista o un appassionato?

In generale io amo il jazz che si è sviluppato fino agli anni ’70, è quello che ha fatto scuola. Ti direi sicuramente “Kind Of Blue” (1959, il disco di Miles Davis che ha rivoluzionato la grammatica del jazz, introducendone la modalità, ndA) che raccoglie tutto il linguaggio jazz. Oppure “A Love Supreme” di John Coltrane (1964, strutturato come una suite in 4 movimenti è ritenuto il capolavoro spirituale di Coltrane, ndA). Questi dischi sono fondamentali per interiorizzare quel mondo jazz di cui stiamo parlando.

 

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Perché hai deciso di aprire un nuovo jazz club a Bologna?

Non ci avevo pensato prima, negli ultimi tempi ho sentito l’esigenza di creare un punto di riferimento per musicisti e veri appassionati di jazz. Questo è un “progetto speciale”, approvato dall’Unesco (l’ art. 3 del regolamento Unesco prevede l’attuazione di progetti altamente qualitativi e di interesse pubblico), per aprirlo c’è stata un’approvazione dell’Assessorato alla cultura, posso dire che non è un locale come gli altri. Noi musicisti volevamo suonare in un club dove le persone venissero appositamente per ascoltare musica e non in un ristorante. In America è pieno di posti per veri appassionati che ascoltano con grande attenzione i musicisti. Negli ultimi 20 anni invece a Bologna il jazz nei locali è stato vissuto così, spesso al pubblico non importa chi e cosa sta suonando. Siamo fortunati perché è in un posto incredibile, nelle mura di Palazzo Isolani e nella meravigliosa cornice di Piazza Santo Stefano, i turisti dall’estero quando vengono al Camera Jazz Club non ci credono che a Bologna ci sia un posto così, con un’atmosfera internazionale e mentre si suona… non vola una mosca!

 

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