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I mondiali di calcio per club sono un flop

I mondiali di calcio per club sono un flop. Tv assenti, giocatori svogliati, stadi vuoti: il calcio trasformato in contenuto non funziona. L’idea di trasformare il football in contenuto per piattaforme di streaming e social sembrava un’idea geniale sulla carta, ma si è scontrata con il boiocottaggio dei tifosi e il disinteresse dei calciatori europei, che hanno accettato di partecipare per il ricco montepremi stanziato dall’Arabia Saudita, interessata più ad una operazioni rebranding che a partorire una competizione degna di nota.

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I mondiali di calcio per club sono un flop. Tv assenti, giocatori svogliati, stadi vuoti: il calcio trasformato in contenuto non funziona. L'idea di trasformare il football in contenuto per piattaforme di streaming e social sembrava un'idea geniale sulla carta, ma si è scontrata con il boiocottaggio dei tifosi e il disinteresse dei calciatori europei, che hanno accettato di partecipare per il ricco montepremi stanziato dall'Arabia Saudita, interessata più ad una operazioni rebranding che a partorire una competizione degna di nota.
Crediti foto cristiano Instagram

I mondiali di calcio per i club stando andando male, in tutti i sensi. Pochi spettatori allo stadio, pochi spettatori in streaming, squadre europee che giocano con il freno a mano tirato. Il perché di questo disastro ampiamente predetto da giornalisti sportivi ed esperti di sport è semplice, anche se le sue cause sono complesse. La nuova competizione infatti è il punto d’arrivo di tre fenomeni strettamenti intrecciati: il dominio finanziario dell’Arabia Saudita, la trasformazione del calcio da sport a contenuto, e l’indebitamento cronico delle grandi squadre. Vediamo che succede.

Il tocco saudita

Il perché l’Arabia Saudita punti tanto sul calcio è semplice: è il suo veicolo per un’opera di rebranding internazionale. L’idea dello stato arabo è di mostrare tramite il calcio le sue bellezze turistiche, di migliorare la sua immagine per quanto riguarda i diritti individuali, e per di più di investire in prospettiva in un campo che per ora è imperdita, ma che in futuro potrebbe essere molto redditizio. La casa reale saudita crede così tanto in questa costosissima operazione di marketing, da pescare la grana necessaria a finanziarla dalla Aramco, compagnia statale di estrazione e raffinazione del petrolio. Per completare il quadro al mondiale partecipa l’Al-Hilal, squadra sempre di proprietà dello stato arabo.

Il calcio non è più uno sport

Il calcio si è trasformato da sport a contenuto prima per i social, e poi per le piattaforme di streaming. Un destino simile a quanto già accaduto a musica e cinema, con la differenza che nel calcio gli appassionati stanno opponendo una strenua resistenza a questa trasformazione. Una resistenza fatta con mezzi legali e illegali: dal disertare gli stadi al boicottaggio del merch ufficiale, passando per il crackare i portali di streaming per seguire gratis la propria squadra fino alla vendita di merch non autorizzato a prezzi bassi. Quello fra tifosi e squadre è una guerra di logoramento fra parenti che si odiano ma non possono vivere l’uno senza l’altro, perché senza tifosi le squadre non guadagnano, e senza la propria squadra del cuore il tifoso non può vivere. Il problema è che le squadre stanno cercando di svincolarsi dall’abbraccio soffocante del tifo, per puntare sempre più allo spettatore occasionale.

Stadi vuoti e piattaforme piene

L’idea dei grandi club è quello di compiere il definitivo salto verso il calcio come contenuto, e per farlo è necessario piazzare il proprio contenuto allo spettatore occasionale, quello per capirci a cui il calcio interessa un po’ ma non troppo. L’identikit di questo nuovo consumatore è presto delineato: maschio, giovane, iperconnesso, consumatore compulsivo, dipendente dalle grandi piattaforme di streaming (Amazon, Netflix&company). Per questo spettatore il calcio è un contenuto esattamente come qualsiasi film, anime, show che si trova sulle grandi piattaforme di streaming: un prodotto che serve a passare un paio d’ore di relax per poi consumarne un altro subito dopo in attesa di dormire. Perché questo tipo di consumatore non contesta, non boicotta, non crea problemi d’immagine alle squadre che sono sempre più dei brand ossessionati dalla loro reputazione.

Dove finiscono i soldi?

Il perché le squadre puntino allo spettatore occasionale è semplice: devono disperatamente trovare nuovo pubblico per riempire le casse vuote. Le grandi squadre europee ormai sono di proprietà di magnati arabi, cinesi e di fondi d’investimento, e quando non ne sono i proprietari hanno il loro posto nel CDA a vigilare che le squadre producano profitto. Il problema è che attualmente non ne producono: il calcio è, ad oggi, un investimento in perdita, da cui ci si aspetta un enorme guadagno in un futuro prossimo. Il problema è che il prossimo futuro di anno in anno diventa sempre più lontano, e nel frattempo i debiti aumentano a dismisura, perché per mantenere una squadra capace di vincere le grandi competizioni significa strapagare non più undici, ma ben ventidue top player, sperando diventino quanto prima redditizi.

Giocatori influencer spremuti e contenti

Veniamo dunque a chi nella pratica manda avanti lo show, cioè a chi scende in campo. Il calciatore in questo quadro diventa sempre più simile ad un contents creator, chiamato non solo ad essere un impeccabile giocatore in campo, ma anche un creatore di contenuti social capaci di attrarre brand e generare traffico sulle piattaforme. Il modello di questo nuovo calciatore è Cristiano Ronaldo, una leggenda tanto in campo quanto sui social, capace tanto di caricarsi sulle spalle la squadra nel rettangolo di gioco quanto di intrannere il pubblico su Instagram grazie alle sue sessioni di allenamento e alla moglie-influencer Giorgina. Un doppio lavoro lautamente retribuito, che però spreme i giocatori fino all’osso costringendoli ad essere perennemente al top sia sul campo che fuori.

Non sciopero, ma nemmeno gioco bene

I calciatori europei erano inizialmente contrari al mondiale per club, sostenendo che il calendario annuale fosse già troppo fitto e servisse un periodo di riposo per mantenere alte le prestazioni. Erano così contrari da minacciare persino uno sciopero, cosa mai avvenuta nel calcio postmoderno. Per scongiurare il pericolo l’Arabia Saudita ha aperto il portafoglio e ha creato un monte premio mostruoso di un miliardo di dollari per la competizione, oltre a pagare DAZN un altro miliardo di dollari perché acquistasse i diritti televisi della competizione, dato che nessun altro broadcaster li voleva comprare. Questa valanga di soldi ha convinto i giocatori europei a partecipare all’evento, ma non li ha convinti a farlo di buona voglia. Il risultato tragicomico è che i nostri eroi giocano con il freno a mano tirato, sperando che la competizione finisca quanto prima per evitare infortuni ed andare in vacanza.

Il contenuto che non tira

La somma di tutti questi fattori ha generato lo spettacolo sportivamente indecoroso a cui stiamo assistendo: un torneo dai costi faraonici che non interessa praticamente a nessuno, e in cui le stelle dello show affrontano la competizione come fossero impiegati comunali il giorno prima delle ferie. Questo scarso impegno dei giocatori ha affondato quello che doveva essere il piatto forte della competizione: i contenuti (cioè le grandi giocate) da mandare in heavyrotation sui social. Questo flop annunciato di sicuro non farà tornare il calcio lo sport che era, ma se non altro sta dimostrando a piattaforme, presidenti e brand che il calcio non può essere prodotto e venduto come un balletto con sponsorizzazione su TikTok.

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