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Tarantino contro Hollywood
Tarantino contro Hollywood. Al podcast di Ellis il regista spara a zero su Dano, irritando l’intera industria che gli si rivolta contro. I difensori di Tarantino parlano di ipocrisia e di attacco al free speech americano, ma il problema non è Tarantino in sé: Hollywood è in crisi esistenziale fra AI, piattaforme di streaming e incassi in picchiata, e quindi chiede a tutti gli addetti ai lavori di presentarsi come una famiglia amorevolmente unita all’esterno, in attesa di tempi migliori.
Tarantino è da sempre una mina vagante ad Hollywood. Famoso per essere tanto un regista d’avanguardia (ma ben inserito nel sistema) quanto un’enciclopedia vivente del cinema mondiale, non si è mai tirato indietro quando ha potuto dar vita a polemiche. Qualcosa però è cambiato: le sue valutazione impietose sugli attori Owen Wilson e Paul Dano hanno generato una levata di scudi unanime di Hollywood, infastidita da un regista che non ha capito che questo non è il momento di sparare a zero sul sistema. Vediamo che succede.
Il bambino terribile
Quentin Tarantino non ha bisogno di presentazioni: regista italo-americano classe 1963, è un autore di film capitali come “Le iene”, “Pulp fiction”, “Bastardi senza gloria”, nonché sceneggiatore del capolavoro di Oliver Stone “Natural bord killers”. Accanto all’iperattività come regista, produttore, attore e sceneggiatore Quentin non si è mai fatto mancare il tempo per la polemica. Celebri i suoi dissidi con Spike Lee per l’abuso della parola “Ni**a” nei suoi film, così come le sue opinioni contro l’abuso di potere della polizia. Rispetto ad altri registi ed attori hollywoodiani, le polemiche e le cause sociali scelte non corrispondono a calcoli di marketing: Tarantino quando “sente” la voglia di buttarsi nella mischia lo fa e basta, spesso stupendosi poi delle conseguenze. E’ in questo contesto che nasce l’intervento incriminato al “The Bret Easton Ellis podcast”, condotto dall’illustre romanziere statunitense.
Il podcast che non ti aspetti
Per capire peché Tarantino si è lasciato andare a dichiarazioni tanto contestate con Ellis, bisogna prima capire quali sono il format, il target e gli ospiti che ruotano attorno al podcast dell’autore di “American Psycho”. Il podcast di Ellis è il trionfo del narcisismo del romanziere, che invita a discutere di cinema i grandi registi-produttori hollywoodiani interrompendoli continuamente con osservazioni, aneddoti e contestualizzazioni che li spingono a dire cose solitamente da tacere negli studios di Los Angeles. Il podcast è seguito da cinefili, giornalisti di gossip, storici del cinema e dandy che amano la chiaccherata colta a ruota libera unita ad un ostentato politicamente scorretto. Insomma un pubblico particolare ed elitario, a cui Ellis regala conversazioni fiume (le sei ore con Nick Pizzolato, il creatore di True Detective per capirci) e nel contempo permette ai pesi massimi di Hollywood di togliersi sassolini dalla scarpa, sparlare dei colleghi e simili sapendo che non ci saranno conseguenze indesiderate. Quindi Tarantino si è messo a chiaccherare a ruota libera con Ellis sapendo di essere in una bolla dove vale tutto, o almeno era così fino alla settimana scorsa.
Tarantino contro Dano
E’ quindi in un salottino protetto che Tarantino presenta i suoi 20 migliori film del 21° secolo, e commentando “Il Petroliere” di Paul Thomas Anderson, lo ha definito un film quasi perfetto, non fosse stato “un grosso, gigantesco difetto… e il difetto è Paul Dano”, apostrofato poco dopo come salsa insipida e “l’attore maschio più debole della SAG (Screen Actors Guild)”. Ovviamente Ellis prende la palla al balzo e gli chiede quali altri attori molto quotati a Hollywood Tarantino detesti, e il buon Quentin nomina Owen Wilson e Matthew Lillard. La chiaccherata poi prosegue amichevolmente, in fondo Tarantino non ha detto nulla di sconveniente per il format in cui era collocato e il pubblico a cui questo format si rivolge. Il problema è stato quel che è successo subito dopo.
Hollywood serra i ranghi
Tarantino finisce l’intervista con Ellis e torna quindi ai suoi impegni, ignaro che nel frattempo qualcuno nella Hollywood che conta ha seguito la chiaccherata e ha pensato che Tarantino abbia passato il segno. Inizia quindi un tam-tam di messaggi e telefonate fra colleghi, che si concretizzano poi in una serie di post falange in cui attori, registi, sceneggiatori difendono a spada tratta Dano, Wilson e Lizzard, accusando Tarantino di crudeltà, di sputare sul lavoro di migliaia di persone (tutti quelli che hanno collaborato con gli attori suddetti), di essere un elemento tossico all’interno di Hollywood. Una reazione così unanime, coordinata e virulenta ha stupito tutti, dato che era dall’epoca del metoo che l’intero sistema non si esprimeva in maniera così compatta contro qualcuno accusato di minacciarlo dall’interno. Il problema è che se all’epoca del metoo il bersaglio di tale indignazione collettiva erano veri o presunti molestatori sessuali, qui a scatenare la reazione è stata solamente una personalissima opinione sul lavoro di colleghi, da parte di un regista che da sempre si è espresso in maniera ben poco diplomatica su Hollywood e dintorni.
Qualcosa è cambiato
Il problema qui non è Tarantino, che ha detto cose non dissimili da quanto afferma senza particolari reazioni da 30 anni a questa parte. Il problema è il cambiamento di contesto ad Hollywood. Pressata dalle piattaforme di streaming che vogliono soppiantarla, messa in crisi dagli incassi sempre più bassi dei film, falcidiata da continue ondate di licenziamenti e rinegoziazioni di cachet a ribasso a causa dell’avanzare dall’AI, a Hollywood tira pesante aria di crisi, e quindi c’è l’idea che oggi più che mai bisogna rimanere uniti e fare fronte comune in attesa di tempi migliori. In questo clima le uscite di Tarantino appaiono quelle di un ragazzaccio che non ha capito che è l’ora di darsi una regolata, perché all’esterno del cerchio magico bisogna sembrare la famiglia ideale da opporre al disastro che avanza. Farne quindi un problema di libertà di espressione, come hanno fatto alcuni fan di Tarantino, significa non capire il contesto: il problema non è che Tarantino debba all’improvviso diventare l’amicone di tutti, ma che debba tacere finché ad Hollywood passerà la crisi economica che sta mietendo vittime illustri.
Sì, ma quando passa la crisi?
Premesso questo, il punto diventa quando Hollywood pensa di ritrovare un minimo di stabilità, e quindi si potrà tornare al consueto tran tran di critiche, riappacificazioni, baci al vetriolo e conferenze stampa dove ci si loda a vicenda con il coltello ben in evidenza dietro la schiena. Per ora tempistiche non ce ne sono: la crisi è strutturale, e non riguarda solamente la questione soldi, ma si estende fino alla radice stessa del sistema cinema che ruota intorno a Los Angeles. L’AI taglia posti di lavoro e quindi costi, ma nel contempo fa infuriare attori, sceneggiatori e registi nonché il pubblico, che non capisce il perché dovrebbe pagare gli stessi soldi di biglietto per cose fatte a un decimo del costo di prima e per di più da una macchina. Le piattaforme sono ormai il rifugio economico dei film che non riescono a pareggiare i costi di produzione al botteghino, ma si sono fatte talmente potenti da prodursi da sole i contenuti e a commercializzarseli bypassando le vetuste major novecentesche. In tutto questo caos il free speech di Tarantino è certamente l’ultimo dei problemi per gli addetti ai lavori, ma è anche l’unico problema che si può risolvere immediatamente e senza costi, mettendo a tacere un regista geniale che però ha il brutto difetto di non capire quando può permettersi di andare a ruota libera e quando deve tacere per spirito di squadra.