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La Ferragni di nuovo nella bufera

La Ferragni di nuovo nella bufera. L’ex dipendente trans Marayah l’accusa di averla assunta per marketing, per poi abbandonarla. Dopo il caso Martina Strazzer sui social sono diventate virali le testimonianze di alcuni ex dipendenti di multinazionali e influencer “inclusivi”, che denunciano di essere stati assunti solo per far pubblicità all’azienda, per poi venire demansionati o licenziati.

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La Ferragni di nuovo nella bufera. L'ex dipendente trans Marayah l'accusa di averla assunta per marketing, per poi abbandonarla. Dopo il caso Martina Strazzer sui social sono diventate virali le testimonianze di alcuni ex dipendenti di multinazionali e influencer "inclusivi", che denunciano di essere stati assunti solo per far pubblicità all'azienda, per poi venire demansionati o licenziati.
Crediti foto chiaraferragni Instagram

Il caso Martina Strazzer, accusata di aver assunto una donna incinta per questioni di marketing e poi averla licenziata, ha generato un terremoto. Ora molti altri ex dipendenti di influencer e multinazionali denunciano dinamiche simili: assunti per questioni pubblicitarie, vengonono poi licenziati o demansionati non appena passato l’interesse dell’azienda per la pubblicità social che potevano offrire. In questo contesto diventa virale la denuncia di Marayah, donna trans ghanese assunta dalla Ferragni durante la registrazione del programma The Ferragnez. Vediamo cosa succede

I fatti

A denunciare sui giornali la Ferragni è Marayah, ragazza trans di origini ghanesi con una storia difficile alle spalle. Vittima di razzismo e transfobia, è stata costretta con l’inganno dalla famiglia a tornare in Ghana per essere internata in un istituto “correttivo”. Tornata in Italia grazie all’aiuto dell’ambasciata, trova rifugio nella Casa Arcobaleno di Milano. Nel 2022 durante le riprese del programma The Ferragnez, Chiara incontra Marayah, le parla (il tutto davanti alle telecamere) e le offre un lavoro nella sua azienda. Marayah aveva fatto presente alla Ferragni che non aveva alcuna esperienza nell’ambito moda, ma la Ferragni l’ha rassicurata dicendo che meritava un’opportunità. Fin qui i fatti, dove la versione di Marayah e quella della Ferragni collimano.

La delusione

Marayah viene assunta in qualità di receptionist con contratto indeterminato per la Fenice Srl. La ragazza accetta il ruolo che poco c’entra con l’ambito moda perché sicura di dover fare gavetta per poi passare ad un ruolo più consono alle proprie aspirazioni. Quello che succede invece è l’esatto opposto: le si chiede di pulire i tavoli della mensa e poi i bagni. Quando le viene data la possibilità di fare uno shooting per la Diesel, cominciano i mormorii nei gruppi whatsapp aziendali, che accusano Marayah di rovinare il brand Ferragni. Dopo il Pandoro Gate la situazione peggiora ulteriormente, dato che Fenice srl perde costantemente clienti. Marayah, come gran parte dei suoi colleghi, si ritrova quindi a non far nulla dalle 9 alle 18, finché nel novembre 2024 cominciano i licenziamenti e viene lasciata a casa per mancanza di lavoro. Mentre cadevano teste, la Ferragni era in vacanza in Filandia con i figli.

La denuncia

Tecnicamente la Ferragni non ha commesso alcun reato: al massimo si può incolpare il responsabile degli uffici della Fenice per aver permesso che Marayah svolgesse mansioni non in linea con il profilo per cui è stata assunta. Quello che ha spinto Marayah a parlare con i giornali è la delusione per quanto è avvenuto. Secondo la ragazza, la Ferragni davanti alle telecamere le ha promesso un’opportunità nel mondo della moda, l’ha assunta per questioni pubblicitarie, e poi si è disinteressata di lei e del suo destino. Il problema posto da Marayah non è che siano stati commessi illeciti o reati, ma che esista un abisso fra il marketing della Ferragni che la vuole datrice di lavoro inclusiva, attenta al benessere dei lavoratori e alla loro crescita aziendale, e poi la realtà dei fatti, in cui la Ferragni si disinteressa completamente di loro.

Lavoro e marketing

La denuncia di Marayah è diventata virale perché si inserisce nel trend iniziato con il caso Martina Strazzer. Dopo che un’ ex dipendente ha denunciato la Strazzer di averla assunta sapendo che era incinta per farsi pubblicità sui social, per poi licenziarla finito il vantaggio marketing dell’assunzione, numerosi ex dipendenti di influencer e multinazionali “inclusivi” hanno denunciato i medesimi trattamenti da parte delle proprie aziende. I racconti sono praticamente tutti identici: l’aspirante lavoratore, membro di una minoranza (etnica, di genere, ecc), si presenta al colloquio, gli viene fatto un colloquio raffazzonato, e poi viene assunto. Subito dopo l’assunzione l’azienda gira un video pubblicitario per i social in cui il messaggio è “l’abbiamo assunto perché lui/lei è membro di questa minoranza e noi siamo inclusivi e diamo a tutti la possibilità di realizzare i propri sogni”. Messo il video sui social e incassata la pubblicità, il dipendente così assunto scopre poi che non svolgerà la mansione scritta nel contratto, ma una più “bassa”, oppure che non avrà nessuna mansione perché è stato assunto per puro marketing, o per questioni di quote (questo specialmente nelle aziende statunitensi).

La crisi dei brand con valori

Siccome il genere di situazioni sopra descritto è stato per anni la norma e non l’eccezione, ormai il marketing valoriale versa in crisi irreversibile, ma i bisogni da cui nasce sono più vivi che mai. In una situazione lavorativa fatta di bassi salari, contratti a tempo determinato, ambienti di lavoro tossici, discriminazione sistematica di donne e minoranze, l’aspirazione di trovare un ambiente di lavoro “umano” è diffusissima. Il fatto che le aziende abbiano sfruttato questo bisogno per farsi pubblicità, per poi nei fatti dimostrarsi identiche a ogni altra azienda “non inclusiva” o come si dice oggi “tossica”, non cambia nulla. Il bisogno è lì, quindi sempre nuove aziende continuano a sfruttarlo, aumentando così la disillusione generale.

Le fazioni

Di fronte a questa situazione, sui social si sono create 3 fazioni, che si scontrano ferocemente sotto ogni nuova denuncia divenuta virale. La prima fazione la potremmo chiamare quella dei “realisti”: il mondo del lavoro è sempre stato uno schifo, le aziende che si dicono “inclusive” sono identiche a tutte le altre. La seconda invece è quella dei “disillusi”: quella dell’inclusività è stata una moda a cui hanno partecipato praticamente tutti i brand, ma solo pochi ci “credevano veramente” e l’hanno messa in pratica, per tutti gli altri è sempre e solo stata una facciata pubblicitaria. La terza fazione è quella degli “idealisti”: i brand devono essere coerenti con i valori in cui si identificano a livello marketing, quindi bisogna denunciare quando questa coerenza viene meno in modo da demolire i brand opportunisti e far prosperare quelli realmente inclusivi. Tutte e 3 le fazioni sono d’accordo però sono una cosa: il marketing valoriale è in crisi irreversibile.

Il futuro

Comunque finiscano i casi Strazzer e Ferragni, una cosa è certa: pochi ormai credono alle aziende che dicono di essere inclusive, tanto più se lo sbandierano sui social. I più disillusi sono i membri della comunità LGBTQI+: dopo anni in cui venivano utilizzati per il marketing, è bastato il cambio amministrazione negli USA perché all’improvviso le aziende licenziassero i lavoratori appartenenti alla comunità, tagliassero i fondi ai Pride, dismettessero le pubblicità “inclusive”. Se questo modo di presentarsi e pubblicizzarsi dei brand è in crisi, il bisogno da cui nasce questo tipo di marketing è vivo e vegeto: in un mercato del lavoro sempre più simile ad una giungla, trovare un’azienda che ti tratti da essere umano è una necessità fondamentale, per cui molti sono disposti a qualunque sacrificio.

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