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Il sessismo nel rap è di nuovo sotto accusa
Il sessismo nel rap è di nuovo sotto accusa. Stampa, attiviste e fondazione Giulia Cecchettin chiedono uno stop ai testi sessisti e misogini. Il problema è che a cambiare le cose dovrebbe essere una santa alleanza fra musicisti, case discografiche e agenzie, tutti attori che per motivi economici sui testi sessisti ci lucrano.

Prima le polemiche sulla presenza di Tony Effe a Sanremo, poi la laurea honoris causa negata a Marracash, infine l’intervento di Gino Cecchettin. A quanto pare quest’anno il problema del sessismo nel rap è diventato un tema centrale, di cui si continua parlare senza però ottenere alcun cambiamento. Vediamo che succede.
Abbiamo un accordo?
Ogni volta che affrontiamo un prodotto culturale è implicito che fra noi e l’oggetto artistico esista un patto, che tecnicamente si chiama patto narrativo. Ognuno di noi sa che draghi ed elfi non esistono, ma quanto guardiamo il Signore degli Anelli accettiamo implicitamente che in quel mondo esistano, pensino ed agiscano secondo schemi e regole che riconosciamo. Nel rap e nella trap è la stessa cosa: ogni qual volta ascoltiamo una canzone di questi generi accettiamo che chi la canta rappresenti la parte criminale e conflittuale della società, e noi in cambio possiamo ascoltare storie di malavita che fortunatamente non viviamo nella nostra realtà quotidiana. Tutto bene allora? No, perché a quanto pare questo patto crea problemi a diverse parti sociali.
Tony Effe il misogino nazionalpopolare
Tony Effe a Sanremo ha avuto il merito di aprire e chiarire le posizioni in gioco. Secondo alcune correnti del femminismo tricolore, amplificate dai giornali in cerca di polemiche, la presenza del trapper romano al festival per eccellenza ha avuto l’effetto di normalizzare ed istituzionalizzare il sessimo nella musica italiana contemporanea. Detta semplice Tony Effe sul palco dell’Ariston ha dato un bollino di accettabilità adulta agli stereotipi trap della donna prostituta, sempre disponibile, gold digger incorreggibile su cui lo stesso Tony ha costruito una carriera. Ora poca importa che il trapper romano da inizio anno faccia di tutto per togliersi la nomea di misogino ed esaltatore di violenza sulle donne, ormai il bollino gli si è appiccicato addosso. E contro ogni pronostico, la sua partecipazione a Sanremo non ha risolto il problema, lo ha anzi peggiorato.
Questa laurea non s’ha da fare
A Marracash è andata sicuramente meglio. Il rapper si è semplicemente visto prima proporre e poi negare una laurea honoris causa in Lettere dall’università di Messina. Motivo? Le proteste di alcune studentesse e professori universitari per il sessismo dei suoi testi. Anche qui, secondo alcuni ed alcune, dare una laurea ad un rapper significava dare un bollino di accettabilità a tutta la sua produzione discografica, in cui è presente (ma non è l’argomento predominante) una visione negativa della donna. Su Marracash la questione è stata più sfumata e dibattuta, perché il rapper di origini siciliane è uno dei massimi liricisti rap italiani, e nella sua produzione abbiamo un album del calibro di “Persona”, considerato perfino dai suoi più accaniti critici una pietra miliare del rap “adulto” italiano.
Il sessismo ad personam
Marracash pone nel dibattito il primo problema. E’ possibile condannare tutta la sua produzione per singole barre sessiste? Oppure è meglio censurare solamente le sue barre sessiste e fare una statua al resto? Come ci si comporta con uno che scrive male delle donne e poi sta per anni con Elodie, icona femminista ed LGBTQI+ italiana? E’ possibile scindere vita e opere, il personaggio pubblico dalla persona nel privato? E’ interessante che tutte queste domande, che valgono per ogni artista, siano state poste per Marracash e non per Tony Effe o Shiva, che pure appartengono allo stesso mondo narrativo.
Gino Cecchettin e la musica come carburante per il sessismo
Il padre di Giulia Cecchettin è intervenuto spesso sull’argomento sessismo dopo il femminicidio della figlia. L’ultimo intervento è stato una lettera aperta a musicisti e case discografiche, per combattere il sessismo nella musica e proporre testi più inclusivi e che smorzino la violenza presente nella nostra società. L’idea di Cecchettin è che le parole creino un immaginario, e che quell’immaginario spinga gli ascoltatori ad agire in una determinata maniera. Secondo il padre di Giulia la musica dovrebbe essere educativa ed edificante, e quindi evitare di rappresentare o peggio inneggiare a comportamenti tossici, violenti, razzisti. Persino le emozioni negative, se rappresentate nude e crude e non filtrate e rielaborate in modo da spingere ad azioni buone verso gli altri, dovrebbero essere evitate.
Signore, ma questa è censura
Cecchettin quindi chiede l’intervento della censura? No, però vorrebbe che si stabilisse un nuovo patto fra case discografiche, musicisti e pubblico in cui quello stabilito dal rap e dalla trap col proprio pubblico non ha più spazio. Quindi nessun intervento statale a censurare le barre dei trapper, semplicemente queste potranno ancora essere scritte ma non troverebbero più spazio perché radio, tv, case discografiche, club&stadi, rifiuterebbero di promuoverle. Quindi nessuna censura a posteriori dallo stato, ma un’autocensura a priori di rapper&company per trovare il proprio spazio economico e mediatico. E’ fattibile questo proposito? Difficile quest’idea funzioni in un mondo dove internet e i social permettono a chiunque di crearsi il proprio spazio e target, senza mediazioni di grandi aziende e organizzazioni.
Quindi che si fa?
Il dibattito è appena cominciato, ma si intuisce già che difficilmente si concluderà con un qualche cambiamento pratico. Il problema a livello concettuale è che esiste un vasto conflitto sull’identità di genere e i rapporti fra i generi nella realtà, su cui rapper e trapper innestano il loro immaginario. Tentare di eliminare la rappresentazione sperando così di risolvere il problema nella realtà quotidiana, è una proposta che torna periodicamente alla ribalta, perché ci dà l’illusione che un problema secolare si possa eliminare togliendo il microfono a ragazzini in crisi ormonale. Poi a livello pratico, la questione è se veramente le case discografiche sono interessate ad intervenire: i testi sessisti vendono, e fino a prova contraria Sony&company sono aziende e non Onlus, quindi poco importa se le casse si riempiono vendendo canzoni sull’amore universale o sulle creator di Onlyfans.