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Giulio Regeni, due nuovi testimoni per l’inchiesta della Procura di Roma

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3 anni dalla morte di Giulio Regeni, la fiaccolata a Milano

Ci sono novità sul caso Giulio Regeni. Il ricercatore italiano dell’università di Cambridge, che mentre era in Egitto per una ricerca partecipata sui sindacati indipendenti dei venditori ambulanti – sindacati in netta opposizione al governo egiziano – scomparve il 25 gennaio 2016 e fu ritrovato morto il 3 febbraio seguente a bordo strada con chiari segni di tortura fa ancora parlare di sé.

La Procura di Roma, che sta per chiudere l’inchiesta condotta dal procuratore Sergio Colaiocco per fare chiarezza sugli ultimi giorni del giovane ricercatore, avrebbe infatti ricevuto due nuove testimonianze che mettono in luce diverse bugie nelle dichiarazioni delle istituzioni egiziane. Nella fattispecie, i due testimoni confermano di aver visto gli agenti della Sicurezza Nazionale Egiziana catturare Regeni. Non solo, i due riferiscono anche di aver visto il ricercatore, nei nove giorni tra la cattura e il ritrovamento del corpo, prima in una caserma vicina alla metropolitana di Dokki, dove Regeni fu rapito, e successivamente in un’altra caserma dove venivano portati i cittadini stranieri.

I testimoni affermano inoltre che le due caserme sono conosciute proprio per il trattamento riservato a chi vi viene detenuto: torture, percosse e nei casi più estremi uccisioni. L’importanza di queste due nuove testimonianze è fondamentale, in quanto renderebbe menzognere le parole dell’allora ministro dell’Interno egiziano, che pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni negò di essere a conoscenza dell’accaduto.

I carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) e i poliziotti dello Sco (Servizio centrale operativo) hanno depositato presso gli atti dell’inchiesta una nuova informativa, che smentisce alcuni dati raccolti finora. Ad esempio, anticipa la denuncia fatta da Mohamed Abdallah, uno dei leader del sindacato indipendente dei venditori di strada, che decise già nell’ottobre 2015 e non nel gennaio del 2016 di denunciare l’attività di Regeni alla National Security, interessato più al denaro che alle ricerche del giovane. Alla sede della National Security, il sindacalista avrebbe incontrato il colonnello Helmy e il maggiore Sharif, ai quali avrebbe raccontato tutto quello che sapeva di Regeni.

L’11 dicembre 2015, poi, una donna fotografò Giulio Regeni mentre partecipava a un incontro autorizzato dei sindacati indipendenti, nonostante lui non fosse tra gli oratori. Questo lo preoccupò. Purtuttavia, ispirato dall’energia emersa durante quel dibattito, scrisse un articolo dai toni piuttosto aggressivi. Questa donna, specifica l’informativa depositata alla procura di Roma, non era conosciuta da “nessuno dei presenti”.

Nell’informativa si legge poi che il 5 gennaio il sindacalista Abdallah fu informato dal maggiore Sharif e dal colonnello Helmy su come indossare una telecamera nascosta per riprendere Regeni a sua insaputa. «Dall’8 al 21 gennaio – conclude l’informativa – Abdallah sentirà il maggiore Sharif per ben 13 volte al telefono». Il leader del sindacato aveva dichiarato che dal maggiore Sharif aveva capito che «volevano tenerlo sotto controllo ancora per sapere cosa avrebbe fatto il 25 gennaio», giorno in cui Regeni fu sequestrato, prima di essere torturato e ucciso.

E infatti il 25 gennaio Regeni era preoccupato. In Egitto, è la data in cui la rivoluzione ha spodestato Mubarak nel 2011 e in cui ogni anno la polizia egiziana compie sequestri, perquisizioni di massa e la popolazione spesso protesta. Quel giorno Giulio Regeni era rimasto a casa, nel quartiere periferico del Cairo dove risiedeva, salvo uscire attorno alle 19 per raggiungere casa di un amico che compiva gli anni. Si ritiene che sia stato catturato mentre si avvicinava alla stazione metropolitana di Dokki.

Tessera dopo tessera, le incongruenze vengono tutte alla luce, proprio mentre la detenzione dello studente egiziano all’università di Bologna Patrick Zaki, accusato di propaganda sovversiva, viene prolungata di altri 45 giorni.

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Crediti Foto: LaPresse