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Frankenstein è un successo a metà per Netflix
Frankenstein è un successo a metà per Netflix. Il film di Del Toro piace al pubblico, ma la critica ci vede pesanti imposizioni da parte di Netflix. Nonostante il colosso americano avesse promesso carta bianca al regista messicano, la critica vede in alcune scelte di cast e di poetica il famigerato fattore N, ossia la mano dell’azienda di streaming per rendere i film d’autore conformi agli standard della propria piattaforma.
Netflix ha investito parecchio sul progetto Frankenstein. Prodotto per rilanciare l’immagine della piattaforma californiana come porto franco per il cinema d’autore che non trova produttori, il film ha registrato le reazioni entusiastiche del pubblico ma recensioni altalenanti dalla critica. A mettere in allarme non solo la critica specializzata ma perfino gli addetti ai lavori è il peso che ha il cosiddetto fattore N nell’economia del prodotto. Vediamo di cosa si tratta.
Un film che non s’ha da fare
Da anni che Guillermo Del Toro cercava qualcuno che gli producesse l’adattamento di Frankenstein di Mary Shelley. Per il regista messicano girare questo film era diventata una vera e propria ossessione. Per Del Toro il suo Frankenstein doveva essere una sorta di summa della sua poetica, un film capace di condensare in ogni fotogramma il suo modo d’intendere il cinema. Dopo continui rifiuti e rinvii Netflix si è proposta di produrre il film, forte dell’oscar vinto dal messicano col capolavoro d’animazione “Pinocchio”. Nell’idea di Netflix il film aveva lo scopo di rilanciare l’immagine ormai offuscata della piattaforma come produttrice non solo di commercialate, ma di film autoriali di grandi registi che nessun altro oserebbe produrre, per via dei budget sontuosi richiesti dai registi stessi per poter realizzare le loro idee. Netflix quindi si è vantata di aver dato un budget faraonico e carta bianca a Del Toro, perché potesse fissare su pellicola il suo capolavoro.
Colpi di fortuna
Ottenuti da Netflix gli agognati 120 milioni di dollari per girare la pellicola, Del Toro può finalmente girare il suo film, ma sorge un problema. Per uno sfortunato intrecciarsi di eventi, Andrew Garfield che del Toro aveva sognato come Frankenstein non può vestire i panni del mostro, e tutto questo ad appena 4 settimane dall’inizio del primo ciak. Visto che il regista messicano non riesce a trovare altri attori a lui congeniali per il mostro, interviene d’autorità Netflix “consigliando caldamente” il buon Jacob Elordi, attore molto caro alla piattaforma dato che riveste un ruolo capitale nella serie “Euphoria”, prodotto di punta della piattaforma statunitense. Per uno strano allineamento astrale, questa “raccomandazione” dall’alto è uno dei punti forti universalmente riconosciuti al film di Del Toro: Elordi ci mette anima e corpo per dimostrare di essere un attore a tutto tondo e non un ragazzotto australiano capitato per caso a Hollywood. La questione però rimane: la “carta bianca” promessa da Netflix a Del Toro non è proprio così immacolata, ma ha evidentemente delle postille scritte in piccolo che Del Toro non aveva letto.
Una Goth fuori posto
Se nel caso di Elordi lo zampino di Netflix è dichiarato, sull’imposizione a Del Toro di Mia Goth ci sono solo voci di corridoio. A insospettire la critica e gli addetti ai lavori è lo strano ruolo che il personaggio della Goth riveste nel film del regista messicano: la sua Elizabeth ha un ruolo secondario e poco sviluppato nel film, particolare molto strano dato che Del Toro ama tratteggiare personaggi femminili complessi. La Goth sembra essere stata messa nel film più per il suo nome e la sua fanbase che non per comprovate esigenze artistiche, sospetto che nulla toglie alla sua ottima interpretazione. Il problema dunque è sempre il famigerato fattore N: cioè quanto Netflix ha voce in capitolo su attori, sceneggiatura, montaggio et similia quando produce film d’autore. Il problema è molto complesso, dato che Netflix si vanta di non mettere bocca sui film autoriali che produce, vanto che serve appunto ad attrarre registi di spessore altrove rifiutati, fidelizzare gli amanti del cinema colto e ottenere un occhio di riguardo dalla critica professionale, che grazie al trattamento di favore riservato ai grandi maestri da parte della piattaforma è più accomodante a recensire le trashate commerciali con cui la piattaforma realizza i suoi veri incassi.
Le strane analogie fra “Mercoledì” Di Burton e “Frankenstein”
Il vero campanello dall’allarme per critici e addetti ai lavori però è l’evidente influenza della serie “Mercoledì” di Tim Burton sul film di Del Toro. Sappiamo tutti quanto Netflix tenga alla serie con protagonista la Ortega, serie capace di unire uno straordinario successo di pubblico a elogi sperticati da parte della critica. Il problema non è quindi la qualità di Mercoledì, ma come l’influenza della pluripremiata serie sia finita nella poetica di Del Toro, che fino ad ora aveva proposto un cinema gotico molto distante da quello di Tim Burton. Anche qui Netflix nega ogni influenza, ma pare quanto meno sospetto che alla veneranda età di 61 anni Del Toro si sia scoperto debitore dell’autore di “Edward Mani di Forbice”, film con cui Frankenstein ha più di un debito: dal modo di tratteggiare la figura del mostro, passando per la figura femminile empatica nei confronti del freak fino alla scelta di presentare la creatura come un sensibile outsider ingiustamene emarginato dal mondo per la sua ripugnante forma fisica.
Se 3 indizi fanno una prova
Come suggerisce il detto, 3 indizi costituiscono una prova: molto probabilmente Netflix ha messo parecchio lo zampino nel film di Del Toro. E’ questo ruolo negato eppure sottilmente onnipresente del colosso californiano ad aver indispettito critica ed addetti ai lavori: le recensioni poco entusiastiche non sono dovute al lavoro di Del Toro in sé, ma a come Netflix abbia imposto pesanti vincoli al regista pur di finarziagli l’opera. Vincoli che alterano pesantemente la natura e il messaggio stesso del film, rendendolo un buonissimo prodotto, ma non il capolavoro che probabilmente del Toro avrebbe partorito se avesse avuto la mano libera che l’azienda di streaming gli aveva inizialmente promesso. Ovviamente qui siamo nel campo minato dei se e dei ma, con cui non si fa la storia: non possiamo sapere cosa sarebbe stato “Frankenstein” con Del Toro totalmente libero, né se sarebbe stato il capolavoro che la critica immagina non abbia potuto veder la luce. Rimane però la questione di fondo: Netflix quanto lascia veramente liberi i suoi grandi autori?
