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Esiste ancora la libertà di parola?

Molti utenti, stanchi delle guerre sui social, invocano l’autocensura per detossicizzare il web. La richiesta però si scontra con le logiche stesse dei social

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Esiste ancora la libertà di parola? Molti utenti, stanchi delle guerre sui social, invocano l'autocensura per detossicizzare il web. La richiesta però si scontra con le logiche stesse dei social, che a causa di cambiamenti strutturali della figura degli influencer, del modo di fare marketing dei brand e di ricalibrazione dei propri algoritmi hanno trovato nell'odio il motore per fatturare l'intera baracca.
Crediti foto chiaraferragni Instagram

Il caso TarantinovsDano ha aperto un dibattito molto interessante: esiste ancora la libertà di parola? In realtà il problema messo in questo modo è mal posto, dato che al momento non c’è nessuna piattaforma, stato (occidentale) o autorità d’altro tipo che voglia impedire ad artisti, influencer o persone comuni di commentare liberamente prodotti e/o vip sul web. C’è però un fronte sempre più ampio di fruitori del social che richiede una sorta di autocensura preventiva, che si esprime nella formula “se non hai nulla di carino da dire su una persona/prodotto/evento, taci”. Vediamo che succede.

Questioni d’odio

Il problema dell’odio sul web è annoso. Insulti, minacce, cyberbullismo, shitstorming, appena si apre i social ci si imbatte nel peggio che l’essere umano possa produrre digitando su un device. Tuttavia fino a poco tempo fa queste pratiche (che, ricordiamo, sono reati) venivano nettamente separate dalla libertà di esprimere giudizi negativi su prodotti/eventi/persone. Insomma nella mentalità del frequentatore dei social esisteva un abisso incolmabile fra lo scrivere “il prodotto che promuovi è una truffa, devi morire”, e “il prodotto che promuovi fa schifo”.  Oggi invece questo confine per molti non esiste più, e si fa strada l’idea che in fondo la seconda frase che abbiamo portato ad esempio non sia altro che un camuffare la prima per evitare denunce. Ma com’è possibile che in pochi anni la percezione di che cos’è e cosa non è l’odio sia cambiata così tanto?

L’era degli influencer

Per comprenderlo dobbiamo tornare all’epoca d’oro degli influencer. L‘influencer è la prima figura pubblica che attua una fusione pressoché totale a livello d’immagine fra se stessa, la sua vita e i prodotti/eventi/cause che sponsorizza. Con l’influencer il confine fra persona, le cose che tocca e quello che fa scompare, e quindi per la prima volta abbiamo casi di fan di un influencer che percepiscono come un attacco personale alla loro beniamina il fatto che un utente critichi il vestito che sta indossando. Questo passaggio poi si è tramandato ai contents creators, che sebbene a livello teorico dovrebbero mettere in primo piano il contenuto social invece che se stessi, difatto spesso rimarcano quanto i loro contenuti siano inscindibili dal loro io, la loro vita, le loro passioni e quindi attuano la medesima fusione fra sé e prodotti delle influencer.

L’era delle trasformazioni delle community

Con l’era delle influencer cambia anche il concetto di community. Siccome l’influencer fonde la sua persona con gli oggetti/eventi/cause sponsorizzate, la community passa dall’essere un aggregato di followers che seguono il profilo dell’influencer ad una vera e propria fanbase attiva, che supporta l’influencer identificandosi con lei (e quindi con i prodotti/eventi/cause da lei sponsorizzate), e comincia a non distinguere più la critica fatta al prodotto dalla critica fatta all’influencer in quanto persona e alla sua community. Per capirci: se prima scrivevo su Instagram ad una influencer “La borsa di Chanel che indossi mi fa schifo”, i lettori percepivano che il mio giudizio sprezzante era SOLO sulla borsa. Con l’andare del tempo l’influencer e la community si fondono così intimamente che lo scrivere “La borsa di Chanel che indossi mi fa schifo” viene letto come “La Chanel è penosa, ma lo sei anche tu e i quattro decerebrati che ti seguono”. Un salto logico e di percezione enorme, avvenuto in pochissimi anni, e che oggi sembra perfettamente naturale.

Il valore delle community e la loro mobilitazione

Ai brand non è sfuggita questa progressiva identificazione fra influencer e community, e hanno cominciato a calcolarne il valore economico. I cachet delle influencer quindi non sono più stati tarati in base al numero di followers del profilo, ma in base al numero di interazioni compiute dalla community sotto ad ogni post. Questo passaggio economico ha creato un fenomeno nuovo, ossia la necessità costante dell’influencer di mobilitare la propria community per farla interagire e quindi aumentare i propri introiti, e allo stesso tempo togliere interazioni ai profili rivali per aumentare le proprie quotazioni sul mercato. Questo fenomeno, sfruttato magistralmente dai trapper, ha generato il continuo ricorso ai dissing, alle polemiche e alle chiamate alle armi con cui prima gli influencer e poi i content creators hanno letteralmente invaso i social, trasformandoli in cambi di battaglia reputazionali.

La stanchezza della guerra

Solo tenendo conto di questi passaggi, si può comprendere il perché solo oggi stia cominciando a serpeggiare un fastidio diffuso per ogni tipo di critica. Oggi un frequentatore abituale dei social vede in ogni commento negativo sotto un post un potenziale casus belli fra community, e stanco di vivere in un ambiente virtuale in perenne assetto da guerra, sente l’insopprimibile voglia che tutto questo finisca. E come si può porre un freno al processo di identificazione fra influencer/contents creator e prodotti? E al rapporto ombelicale fra influencer e community ? Semplice, non si può, ormai sono percepiti come fenomeni naturali alla stregua delle inondazioni. E allora dove si interviene? Semplice, sull’unico anello debole della catena: l’opinione del singolo, sia esso Quentin Tarantino o Giancarlo lo stradino. Si ritiene che se il singolo evita di criticare, vengono meno i casus belli, le community perdono il motivo per cui mobilitarsi, e i social tornano ad essere un luogo tranquillo. Una soluzione che appare semplice e soprattutto praticabile, peccato però che pecchi d’ingenuità.

La necessità dell’estensione della lotta

L’ingenuità sta nel ritenere che la continua guerra di influencer/contents creators (con relative community) fra loro nasca dal commento di Giancarlo o dalle esternazioni di Tarantino, invece che dal bisogno degli influencer/contents creators di generare interazioni per vendersi ai brand. La tossicità tanto demonizzata sui social non nasce dalla frustrazione di Giancarlo, ma sono i social stessi e chi ci lavora a far di tutto perché il povero Giancarlo scateni il peggio di sé, dato che questo fa aumentare i fatturati di tutti. La prova del 9 di questo ragionamento? Sono gli stessi brand e influencer ad assumere professionisti della provocazione perché scrivano commenti d’odio e/o insultino la propria community quando le interazioni si abbassano troppo. Oltre a professionisti umani del seminare zizzania, le agenzie di marketing vendono anche chatbot programmati appositamente per creare conflitti sotto il profilo dei propri clienti, in modo da risvegliare le community quando dormono.

Sì, ma allora che si fa?

Purtroppo i singoli utenti non possono far nulla. E’ il sistema economico stesso dei social ad aver bisogno dell’odio per generare profitto. Per fermare questa macchina infernale servirebbero leggi ad hoc fatte dai politici, che però si guardano bene dall’emanarle perché sono loro stessi, ormai diventati influencer a tutti gli effetti, ad essere schiavi di questi meccanismi per ottenere consensi. Agli utenti non rimangono quindi che le opzioni più drastiche: abbandonare i social oppure diventare utenti che non postano, non commentano, non condividono, cioè dei lurkers. Scelte radicali compiute da sempre più persone, stanche di guerre virtuali che non servono a nulla. Il fenomeno sta diventando così diffuso che ormai Facebook e X si sono trasformati in cimiteri, mentre le interazioni su Instagram e TikTok calano di mese in mese. Basterà questo ritiro di massa a fermare l’odio sul web? Finché coloro che rimangono attivi sono abbastanza da costituire un target appetibile per i brand, la risposta è no.
Detto questo, dobbiamo tenere a mente la questione fondamentale: l’odio sui social non è causato dalla libertà d’esprimere il proprio giudizio, ma da come i social facciano di tutto per tramutare i giudizi negativi in odio per generare profitto.

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