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Havoc: quando Netflix punta sulla ferocia gratuita
Havoc: quando Netflix punta sulla ferocia gratuita. Tutto quello che vogliamo ormai dall’action è l’essere rassicurati che sopravviveremo. Non importa se il mondo è dominato dalla corruzione, se i buoni sono in via di estinzione e l’unica speranza è identificarsi in mezzi cattivi in preda ai sensi di colpa. A rilassarci è l’idea che nonostante tutto camperemo fino a domani.

Il 25 aprile è uscito su Netflix “Havoc”, ultima fatica di Gareth Evans per la celebre piattaforma di streaming. Il film offre 105 minuti di intrattenimento che scorrono fra combattimenti cruenti e stereotipate storie di poliziotti corrotti affetti da sensi di colpa. A rendere degno di nota il prodotto, oltre al protagonista Tom Hardy, è il suo inserirsi in un trend arrivato ormai al suo apice: quello degli action iperrealisti che puntano sul mix di azione ferocissima e psicologie devastate dalla colpa. Vediamo che succede
Gareth Evans, un uomo una garanzia
Gareth Evans è un regista-sceneggiatore semisconosciuto al pubblico generalista, ma amatissimo da quello appassionato di film a tema arti marziali. La sua fama è dovuta a 3 film girati in Indonesia, ossia “Merantau”, “The raid – Redenzione” e “The raid 2 – Berandal”, con artisti marziali locali. Evans ha innovato il genere dell’action con pochi e semplicissimi ingredienti: arti marziali orientali di strada, realismo cruento al limite dello splatter, attori a bassissimo costo disposti a rompersi gli arti pur di creare scene d’azione perfette. Sopra a questa solida base action Evans innesta storie che ruotano intorno al tema della colpa e della redenzione, dove la colpa consiste nel tradire la famiglia e la propria missione lavorativa, e la redenzione consiste nell’amazzare i malvagi e salvare i non troppo cattivi.
Scenari fatiscenti per massacri ignoranti
L’universo di Evans ha come perno il tema corruzione. Nelle sue opere tutti, in vario modo e grado, sono corrotti: i soldi sporchi tentano e portano nell’abisso praticamente tutti. I protagonisti quindi sono degli anti-eroi, la cui differenza con i cattivi consiste solamente nel senso di colpa. Ad amplificare il concetto gioca un ruolo fondamentale la scelta degli scenari in cui avvengono i massacri: condomini fatiscenti, crack house, discoteche di serie Z, seminterrati diroccati e simili. In questo mondo fatto di psicologie in frantumi ed edifici che cadono a pezzi, i nostri anti-eroi cercano di sopravvivere ad orde di nemici armati di fucili d’assalto e mazze, spade e pistole, ma soprattutto ferratissimi in ogni arte marziale di strada si possa immaginare.
L’iperrealismo da videogioco
Ad un primo sguardo distratto un film di Evans può sembrare uno spaccato realistico della quotidiana lotta fra la polizia e le gang di strada. Solamente a metà film si intuisce che il realismo (e persino la verosomiglianza) non interessano al regista britannico: i protagonisti sopravvivono a centinaia di nemici e decine di scontri in rapida successione con solo qualche ammacco. In poche parole il film funziona come un videogioco: centinaia di nemici minori preparano il protagonista allo scontro con i boss. La particolarità di “Havoc” è che qui i boss non sono artisti marziali iperskillati come nei capolavori indonesiani, ma banali poliziotti corrotti e mafiosi che muoiono crivellati da decine di colpi d’arma da fuoco.
Tanto successo per nulla
Con la sua trilogia indonesiana Evans ha rinnovato così profondamente il cinema action, che ormai la sua influenza è ovunque. Da “John Wick” a “The Beekeeper”, passando per “The Equalizer” e “La furia di un uomo – Wrath of Man”, è difficile pensare il cinema action-thriller degli ultimi 10 anni senza pensare a lui. Ma l’interessante è il successo che riscuote questo genere sulle piattaforme di streaming: se i film ad alto budget fanno buoni incassi al botteghino, gran parte delle opere non passa nemmeno dal cinema, venendo prodotto direttamente per le piattaforme, dove fa faville. Poco importa se la piattaforma si chiama Sky, Prime Video o Netflix: ormai tutte le multinazionali dello streaming fanno a gara per accaparrarsi questo genere di prodotto.
Il gusto per il sangue
La domanda a questo punto è: perché ci piacciono tanto queste storie di massacri e sensi di colpa? Perché sono diventati contenuti amatissimi per passare serate in solitaria davanti allo schermo? La risposta è semplice: sono film rilassanti. Tremendamente rilassanti. ASMR per maschi che durano un’ora e mezza invece che un minuto. A renderli rilassanti è il mix di azioni così cruente da essere inverosimili, un mondo così tetro da non lasciare spazio per complicate scelte morali, il fatto che nonostante tutto il mondo congiuri per ammazzare il protagonista e alla fine questo sopravviva, certamente ferito nel corpo e nella psiche, ma sopravvive.
La sopravvivenza come unico orizzonte
Il vero centro di tutto è appunto questo: ormai troviamo rilassante e rassicurante la semplice rappresentazione della sopravvivenza. Questo aspetto accomuna l’action-thriller contemporaneo a generi in apparenza distanti, che si basano sulla stessa idea: le distopie, i catastrofici e gli zombie movie. L’idea di sopravvivere ad un mondo materialmente in sfacelo, moralmente corrotto e in cui l’umanità si divide fra cattivissimi e mezzi cattivi, ormai lo troviamo rassicurante. Questo aspetto apre una serie di riflessioni estremamente inquietanti, che però in questi generi non vengono mai sviluppate, perché farlo significherebbe aprire un abisso in cui abbiamo paura di guardare. Teniamoci stretti quindi scontri ignorantissimi e sceneggiature ipersemplificate: guardare più in profondità farebbe male a noi e farebbe ancora più male ai bilanci di Netflix&company.